Basta un alito di vento,
un balzo,
un saltello,
una grassa risata,
un colpo di tosse,
uno starnuto,
un cenno d’assenso
o di dissenso,
di forte scuotimento.
La vista di un aereo,
di una nuvola
a forma di cane,
di un nibbio,
di una poiana,
di un picchio verde
o di un lampadario
in cristallo, brillante,
di un mandala,
nel rosone della cattedrale,
di un affresco,
di un soffitto
a cassettoni.
Oppure una corsa,
nel parco cittadino,
lungo la statale,
nel bosco,
sulla spiaggia.
Un tuffo in acqua
e poi riemergere
con qualcosa in meno,
con qualcosa di cambiato.
Uno scappellotto,
un’arruffata di capo,
un Casqué,
una giravolta,
un singulto,
un singhiozzo,
un piegamento sulle ginocchia.
Uno spavento,
un finestrino aperto,
il volo di un aquilone,
il passaggio di un treno,
la discesa,
il capo chino,
desolato,
il brivido improvviso,
lo spasmo,
il pianto agitato.
Sempre e solo
quando non vuoi,
quando non è il caso.
Parrucchino di paglia,
parrucchino canaglia.
Ormai è tempo
di trapianto.
Un prato sintetico,
da calcetto,
tra le orecchie.
Un tappetino
di benvenuto,
uno scalpo,
un animale morto,
una spazzola,
un rastrello,
una toppa.
Quanta nostalgia
vecchio parrucchino,
parrucchino di paglia,
parrucchino canaglia.
© 2015